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Parco Nazionale d’Abruzzo, solo quest’anno 134 piccoli camosci
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Grazie al lavoro del Parco nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise iniziato nel 1992, oggi il camoscio appenninico è presente in Majella, Gran Sasso, Sibillini e Sirente Velino dopo che agli inizi del 1900 era scomparso per cause antropiche.

La striscia

Sono 598 i camosci “contati” nel censimento annuale del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, dei quali 134 piccoli dell’anno e 396 animali adulti. Un censimento ormai diventato tradizione sin dal 1993, che quest’anno è stato possibile grazie a 9 giornate di conta in simultanea, con la partecipazione di Guardie del parco, tecnici del Servizio Scientifico, Carabinieri forestali, colleghi delle Riserve Naturali Regionali delle Gole del Sagittario e del Monte Genzana e Alto Gizio e volontari. L’appuntamento in alta quota, oltre a restituire il numero minimo di camosci presenti, ha offerto anche il grande vantaggio di poter verificare la sopravvivenza dei nati nell’anno precedente: i numeri ci dicono che il 55% dei piccoli nati nel 2016 sono sopravvissuti nel 2017.

Sono 24 anni che il Parco nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise effettua conteggi in alta quota per monitorare l’andamento della popolazione e oggi, può testimoniare che, a differenza delle popolazioni reintrodotte negli altri Parchi, la popolazione storica dell’area non ha una crescita esponenziale, ma mostra un andamento tipico di una popolazione stabile con oscillazioni naturali dovute a fenomeni naturali di autoregolazione per cui la popolazione resta più o meno stabile con alcune fluttuazioni a breve termine. La maggior parte di questi meccanismi avviene in natura quando la popolazione ha raggiunto la capacità portante dell’ambiente. Nonostante ciò, lo studio di questa popolazione non finisce mai di stupirci: nel corso di questi ultimi 20 anni, l’areale della popolazione si è modificato, spostando il suo baricentro nella parte meridionale del Parco. Alcune aree, storicamente utilizzate dal camoscio, si sono “svuotate”, mentre in altre c’è stata una colonizzazione molto rapida e consistente. E’ il caso del comprensorio Meta-Tartari che oggi ospita oltre 150 individui o quello del Marsicano nel quale è stato registrato negli ultimi anni un sorprendente incremento esponenziale con 179 animali contati di cui 49 capretti.

Segnali positivi provengono anche dalla zona a confine tra Lazio e Abruzzo: lungo la catena montuosa compresa tra Monte Irto, Serra delle Gravare e monte Panico da diversi anni sono presenti numerosi branchi.

La conservazione del camoscio appenninico è stata una delle sfide più importanti e meglio riuscite delle Aree Protette, in primis di questo ente che, già nel 1992, si è adoperato coraggiosamente in un’operazione di reintroduzione di una specie rara ed in aree non ancora protette.

I ritorno del camoscio appenninico – Si tratta di una sottospecie endemica del camoscio dei Pirenei, scomparso a causa dell’uomo in tutti i rilievi dell’Appennino e presente, all’inizio del 1900, con pochissimi individui, esclusivamente nella costa Camosciara, tra i territori comunali di Civitella Alfedena e Opi. Fu proprio questa importante presenza che portò al l’istituzione del Parco 95 anni fa. Grazie al lavoro del PNALM, e successivamente delle altre aree protette, oggi il camoscio appenninico è presente in Majella, Gran Sasso, Sibillini e Sirente Velino e le attuali consistenze numeriche sono la testimonianza concreta del successo di queste reintroduzioni. “Ringrazio i servizi del Parco e tutti coloro che hanno collaborato per il lavoro svolto”, dichiara il Presidente del Parco, Antonio Carrara. “Grazie all’operosità dei Parchi, che nel progetto LIFE COORNATA hanno potuto completare e avviare le reintroduzioni sui Monti Sibillini e sul Sirente, oggi il camoscio appenninico, sebbene considerata una specie ancora “vulnerabile”, è l’esempio tangibile di un successo dell’azione di conservazione, che ha bisogno di attività concrete di gestione e del lavoro in sinergia tra istituzioni e associazioni. Resta comunque evidente che la conservazione di specie rare ha ancora bisogno del contributo delle Aree protette che offrono attualmente la maggiore garanzia di tutela e gestione del territorio”.

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